Un’attesa costante ma vana, promesse non mantenute, nuove e illogiche complicazioni, teorie sulla crescita economica prive di fondamenta tecniche. Difficile classificare altrimenti l’evoluzione – degenerazione normativa che caratterizza da decenni la legislazione fiscale.
Sfugge, o forse non esiste, la volontà di muoversi in tal senso, a chi, tempo per tempo, ha avuto la responsabilità di indirizzare la politica economica e fiscale del Paese, un concetto elementare: non può esserci crescita se non si estirpa il flagello che la
deprime: la spesa pubblica improduttiva. Taglio che può anche trasformarsi, a parità di spesa complessiva, in riqualificazione e volano per lo sviluppo.
Sono noti, infatti, gli esiti dei provvedimenti che sono stati rubricati come semplificazione e razionalizzazione del sistema fiscale e riduzione della zavorra del debito: mere enunciazioni di principio che si sono dimostrate, a ben vedere, inefficaci se non, in molti casi, produttive di effetti deleteri.
Il termometro di siffatte contraddizioni, non l’unico ma fra i più significativi, è la difficoltà estrema nella quale sono costretti a operare i professionisti e le associazioni chiamate ad assistere i contribuenti nei loro adempimenti verso la Pubblica Amministrazione e, segnatamente, quelli riferibili all’Agenzia delle Entrate.
Da poco superate le prime scadenze del 2017 (dichiarazioni Iva e spesometro) inizia la tormentata stagione della redazione dei bilanci e delle dichiarazioni dei redditi.
Verrebbe da chiedersi, ad esempio, come sia stato possibile attendere quasi 20 mesi per cercare, peraltro attraverso uno strumento tecnico improprio, il “decreto milleproroghe”, di coordinare le modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 139/2015, in materia di bilancio di esercizio, con le norme del Tuir.
E, soprattutto, il modo con cui si è operato in tale direzione, ovvero con la previsione di regole che sembrano ignorare le caratteristiche delle imprese e, più in particolare, delle società che rappresentano il tessuto produttivo italiano.
Si pensi ai “guasti” che deriveranno dall’eliminazione delle spese di pubblicità e/o ricerca e sviluppo dall’attivo di bilancio: chiunque abbia minime conoscenze ragionieristiche sa perfettamente che l’elisione di tali poste determina un equivalente decremento del patrimonio netto, con effetti che, in molti casi, potrebbero trasformarlo in un deficit.
Senza trascurare, oltretutto, che per meri fini comparativi tale effetto deve essere evidenziato anche con riferimento ai bilanci del 2015.
O, ancora, alla previsione che ha depotenziato l’agevolazione “Ace” o all’irrilevanza fiscale dei super e iper ammortamenti ai fini Irap e, ancora con riferimento a queste ultime due fattispecie riguardanti l’acquisto dei beni strumentali, l’esclusione dal novero dei beni agevolati, dal 2017, delle autovetture non destinate esclusivamente all’attività propria dell’impresa. Per i professionisti, addirittura, il divieto di fruire dell’iper ammortamento.
Salvo raccontarci che, a fronte di una possibile riduzione del cd. “cuneo fiscale”, la correlata contropartita sarebbe da individuare nell’incremento delle aliquote Iva (dal 22 al 25% e dal 10 al 13%), così favorendo (?!) le imprese esportatrici.
Con il corredo, ad abundantiam, della soppressione delle detrazioni d’imposta attualmente previste per alcune categorie di spesa (privata, ovviamente).
Non credo che siffatte misure possano rilanciare l’economia.
Sarebbe già un miracolo se non la deprimeranno ulteriormente.
Su tutto, però, sopravvive la spesa pubblica.
Qualche sforbiciata, qua e là, ma non troppo decisa. Quasi come si fa con le piante: si “pota” affinché vi sia una crescita più robusta; in questo caso, però, il nuovo germoglio graverà ancora sui contribuenti.
Tratto da un articolo di Alessandro Pratesi su Sistema Ratio