La riforma delle imposte sul reddito delle società

07/07/2021

L’ipotesi di una riduzione della pressione fiscale effettiva sul reddito d’impresa e una semplificazione degli oneri amministrativi.

La profonda crisi economica globale causata dalla pandemia in corso richiede misure straordinarie in grado di creare uno shock positivo nell’economia. Tra queste, una delle più urgenti è quella di riformare radicalmente la fiscalità d’impresa.
Tale riforma viene considerata una priorità per i seguenti motivi:

  • ruolo fondamentale delle imprese nella crescita economica e sociale del Paese;
  • importanza della quota di gettito originato dal mondo delle imprese: imposte (IRPEF, IRES) sui profitti, IRPEF su stipendi e salari del settore privato, IVA generata dai beni e servizi prodotti e consumati in Italia, imposte sostitutive su dividendi ed interessi;
  • potenziale fattore di traino delle imprese per il livello di modernità del Paese: investimenti in tecnologia, digitalizzazione e R&S.

A fronte di questo scenario, abbiamo un sistema tributario per le imprese oneroso, spesso penalizzante, caratterizzato da un basso livello di attrattività economica (128° posto su 189 del PWC Paying Taxes 2020 Report).
I nodi da sciogliere all’interno del sistema fiscale italiano sono i seguenti:

  • un cuneo fiscale intorno al 46% con la media dei Paesi OCSE al 34,6%;
  • un livello di total tax & contribution rate del 59,1% con una media mondiale del 40,5%;
  • 238 ore dedicate dall’uomo al lavoro amministrativo, contro una media europea sotto le 200;
  • una produttività del lavoro di 47 dollari, contro i 60 della Germania e i 61 della Francia;
  • 14 diverse scadenze di pagamento, contro una media mondiale di 9;
  • un difficile rapporto amministrazione-contribuente caratterizzato da una scarsa trasparenza.

Questi elementi frenano fortemente le riprese degli investimenti e rischiano di alimentare la politica di delocalizzazione, definita “l’evasione industriale”.

Il 1° pilastro della riforma potrebbe essere quello di avvicinare la pressione fiscale sulle imprese all’aliquota nominale del 24%, restringendo le differenze tra reddito civilistico e base imponibile che creano un forte divario tra aliquota nominale e aliquota effettiva sul reddito prodotto. Eliminando le differenze si produrrebbe un duplice effetto positivo: una riduzione della pressione fiscale effettiva sul reddito d’impresa e una semplificazione degli oneri amministrativi.

Il 2° pilastro dovrebbe essere quello di una vera semplificazione normativa e amministrativa che elimini la difficoltà di orientarsi in un groviglio di norme e adempimenti spesso inaccessibile anche agli addetti ai lavori e peraltro rappresentante il principale ostacolo all’azione di contrasto dell’evasione.

Il 3° pilastro dovrebbe orientare in maniera non neutrale la propensione delle aziende a investire e ricapitalizzarsi. A tal proposito, alcuni aspetti andrebbero mantenuti e migliorati, come i provvedimenti su Industria 4.0, i crediti d’imposta per R&S, patent box, superammortamenti, rivalutazione dei cespiti e ACE. Inoltre, potrebbe essere introdotta una nuova misura sul differimento di un terzo dell’IRES al momento della distribuzione del dividendo. In questo modo, lasciando inalterata l’attuale aliquota del 24%, la tassazione al momento della generazione del reddito sarebbe del 16%, agevolando il reinvestimento dei profitti per la crescita e per sostenere i nuovi investimenti.

Il 4° pilastro riguarda la stabilità finanziaria, ossia dove reperire le risorse per la riforma, senza dimenticare un responsabile equilibrio di bilancio.

Una caratteristica peculiare nel nostro sistema tributario è quella di tassare poco i consumi e molto le attività produttive: lavoro e impresa. Con un accorpamento delle aliquote si potrebbe ottenere uno spostamento del carico dalle attività produttive ai consumi, limitando gli effetti regressivi sui consumatori. Sul fronte equità, non bisogna poi dimenticare che il principio della capacità contributiva si fonda sul rispetto dell’equità verticale (a differenza di reddito dovrebbe corrispondere una diversa tassazione). Potrebbe dunque essere giusto valutare una diversa aliquota che colpisca i redditi d’impresa a seconda del loro ammontare e quindi tassare di meno i soggetti con basso livello di redditività rispetto a quelli con alti profitti. In questa direzione si potrebbero anche superare le contraddizioni dei regimi forfetari, che con l’attuale flat tax al 15% violano evidentemente il principio dell’equità orizzontale, trattando in maniera diversa i contribuenti con lo stesso reddito.

Fonte Ratio Quotidiano – Martina Bertolinelli